È la stampa (3D), bellezza
Come molti di voi avranno notato, sono un appassionato di stampa 3D. Questo perché ho iniziato la mia carriera accademica come ingegnere meccanico, posso disegnarmi da solo i componenti che voglio e realizzarli con le attrezzature del mio laboratorio.
Ho provato a scriverci un articolo sopra, ancora nel 2018. Alla fine l'ho pubblicato e lo potete trovare cliccando l'immagine con il doge qui sopra. Il doge (il cane dei meme) è lì per due motivi, attirare la vostra attenzione e rendere meno probabile una denuncia per aver violato qualche copyright riguardo ai materiali contenuti nel mio stesso articolo. Ma questa è un'altra stora e ne parlaremo in futuro.
Vi racconto dell'articolo. Immagino che a tutti piaccia l'idea dei materiali stampati in 3D, ci si possono ottenere forme quasi impossibili con altre tecnologie e, soprattutto, richiedono solo una minima capacità di disegno tecnico in 3D e... una stampante. E alcune sono diventate davvero economiche.
Quello che probabilmente non sapete è che la maggior parte dei materiali per stampa in 3D hanno proprietà meccaniche veramente orribili. Si scheggiano facilmente, si possono rompere sotto sforzo senza apparente motivo e reggono molto male i cambi di temperatura. Questo è vero in particolare per la stampa stereolitografica (che parte da resina liquida) rispetto a quella a "filo".
Io a lavoro uso questa (cliccateci sopra per il sito del produttore):
Mi ci trovo benissimo, lavora con una precisione molto elevata (fino a 0.025 mm) e consuma tutto sommato poco materiale.
Il processo è molto semplice: c'è un laser che da "sotto" (dalla base grigia) colpisce il liquido nella vaschetta (arancione, da non confondersi con il coperchio). Il liquido è una miscela di molecole fotosensibili e resina metacrilica che quando viene colpita da un laser a 405 nm solidifica. Il laser quindi si muove e "disegna" il componente, uno strato alla volta mano a mano che quello precedente viene solidificato. In pratica, è come se il componente finito fosse fatto a fette orizzontali spesse una frazione di millimetro e fuse insieme una alla volta.
Una volta finito il componente, lo si "tosta" in una specie di forno a microonde (che in realtà è a raggi UV da 405 nm) che gli da il tocco finale, ottimizzando la resistenza e togliendo la sensazione di appiccicaticcio della resina.
Ma il paper cosa dice?
Il paper dice che questo materiale (che è uno di quelli standard) non è un granché. Se lo "tostiamo" troppo o troppo forte, ad esempio, diventa davvero fragile.
Ma non solo: se lo mettiamo in un altro forno, chiamato "camera climatica", e gli facciamo fare un po' di cicli alta/bassa temperatura (neanche troppo estremi, qualcosa come "estate nel Sahara / inverno in Siberia"), diventa fragile uguale. Certo non sono le usuali condizioni di esercizio, ma questo processo di alta/bassa temperatura accellera solo la normale degradazione del materiale, che comunque si infragilisce nel tempo anche a temperature quotidiane.
Nel paper abbiamo usato un altro laser per misurare a che punto è la degradazione. Siamo cioè in grado di capire quanto le proprietà sono scese nel tempo, per questo specifico tipo di resina.
E ve lo devo dire: se usate questa tecnologia cercate di non esagerare con la "tostatura" e non mettete mai i vostri capolavori sotto sforzo!
(ovviamente esistono resine migliori e spero di poterne parlare in futuro, anche perché sto giocando al piccolo chimico con le composizioni e o verrà fuori qualcosa di magnifico o svilupperò qualche superpotere)
Qualche riga in più sull'importanza del lavoro a livello accademico. L'articolo è stato scritto nel 2018 e mandato ad una delle riviste di punta del settore. Accolto inizialmente con commenti molto positivi, è stato però "congelato" per oltre un anno (in mano ai reviewer) e alla fine rifiutato. Siamo passati da "bellissimo, devi aggiustare giusto due robette nel testo" a "non può essere accettato". E la riposta l'ho ottenuta solo dopo aver insistito CINQUE volte.
Nel frattempo un altro gruppo, che non posso giurare sia quello stesso gruppo che ha fatto la revisione del mio lavoro e lo ha bocciato, ha pubblicato una cosa molto simile, diventando così de facto il primo al mondo a fare questo tipo di studio. Io ho ovviamente protestato con l'editore, ma il customer care che se ne stava occupando è sparito e poi, a quanto pare, ha cambiato lavoro. Ora aspetto che qualcun'altro prenda in mano la pratica (ferma da Marzo 2020) ma nel frattempo ho preferito mandare il lavoro altrove (ed è per questo che potete leggere il lavoro).
In accademia queste cose succedono. Succedono perché come scienziati ed autori siamo tutelati pochissimo. Se volessi ad esempio rivalermi contro l'editore o contro il reviewer, mi troverei con poco supporto da parte delle mie istituzioni e rimpallato come un flipper dal lato opposto. Tutto questo per dei contenuti che io, come autore, regalo alla rivista. Lo ripeto: io ho l'idea, io faccio gli esperimenti (a spese del mio budget), io compro l'attrezzatura (budget), io scrivo l'articolo, io mando l'articolo, l'articolo è loro.
Fa parte del gioco e fino ad ora (su 101 articoli pubblicati) mi è capitato solo due volte. Però quando vi parlano di questi potenti scienziati protetti dalle multinazionali vi pregherei di ridergli in faccia, a volume più alto possibile.
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